“Il fotografo non c’è“ di Brunella Germini

L‘ uso che Andreas che fa dello strumento fotografico è di tipo squisitamente sperimentale. Nella prima immagine un giovane capriolo in primo piano è intento a brucare al centro di una radura delimitata da un’ alta linea d’orizzonte. La foto, una foto “pura” come dice Andreas, cioè senza ritocchi, è in contro-luce, cosí da obbligare l’osservatore a concentrarsi sulla sagoma scura del piccolo animale che si muove in modo impercettibile, mentre il resto si perde in una luce soffusa. La sensazione che si ha guardando la foto è la stessa che ci sorprende a volte quando, in genere di prima mattina, vediamo all’ improvviso un capriolo o uno scoiattolo in cerca di cibo, un misto di stupore e meraviglia. In quest’ immagine, la cui dimensione poetica è innegabile, non c’è ricerca alcuna di identità, ma anzi, il fotografo non c’è proprio, essendo la foto effettuata con una fotocamera ad infrarossi, uno strumento che scatta foto in automatico grazie ad un sensore che registra automaticamente il movimento. Il fotografo, per cosí dire, si è lasciato sorprendere ben piú del capriolo… In un altro lavoro, Santja, dedicato ad una ballerina di danza contemporanea, il soggetto è rappresentato di profilo in un movimento subitaneo, quasi nel tentativo di sottrarsi allo sguardo indagatore della fotocamera. Con l’allungamento del tempo d’esposizione che provoca l’effetto di sfocatura lungo il volto della donna l’artista sembra voler registrar la traccia di un’ emozione, forse di un passato che si sta lentamente dileguando. Il fuori-fuoco sta qui per la dimensione della durata; di nuovo lo strumento indaga e stupisce. Nella terza immagine, formalmente perfetta, I volti dei due protagonisti, immersi in uno sfondo scuro, pur accostati non si toccano, gli sguardi passano vicini senza incrociarsi. Immagine formalmente perfetta dicevo, inserita in un ovale compositivo, ma inquietante perché cupa e priva di vita. In questo come nell’ ultimo lavoro, l’ artista si serve della fotogrammetria, una tecnica in cui il prodotto finale viene elaborato da un software che componendo in base a degli algoritmi una serie di scatti ne elabora un’immagine in 3 D assolutamente virtuale. Per questo a delle forme esteticamente riuscite corrisponde lo svuotamento dei contenuti, sembianze umane ridotte ad involucri vuoti. L’ impiego di questo strumento estremo, all’ interno del quale è solo il software a ricostruire la realtà privando l’ uomo di qualsiasi potere, viene utilizzato dall’artista per farci riflettere sull’ uso sfrenato del ritocco fotografico, strumento che tramite per es. il fotoshop permette di modificare la realtà, creando immagini patinate per uso privato o arrivando a manipolarla falsificandola, come nel caso delle fake news ormai dilaganti nei media. Quest’ uso improprio dello strumento fotografico contrasta con in principi stessi su cui si basa la fotografia, nata per documentare e raccontare anche ciò che a prima vista non si vede, ma sempre nell’ ambito della realtà. L’uso improprio della tecnologia produce mostri, sembra asserire l’artista nel suo ultimo lavoro dagli echi surrealisti.